Brand Ambassador – cosa dice la legge?

I dipendenti sono i primi veri influencer di una azienda. Ne sono fermamente convinta, studio il fenomeno ormai da qualche anno, scrivo e faccio formazione su questi temi. 

Cosa implica coinvolgere i dipendenti come Brand Ambassador? Al di là di una adeguata formazione e di una social media policy condivisa, esistono delle implicazioni legali da tenere in considerazione? 

Spesso i dipendenti non vogliono esporsi per non avere problemi con l’azienda, e allo stesso modo le organizzazioni non sono sicure di volere utilizzare i collaboratori come “voce” aziendale (anche se a tutti gli effetti già lo sono).

Cosa dice la normativa a riguardo? Esistono leggi, raccomandazioni, indicazioni in proposito? Ce lo racconta l’avvocato Diego Fulco, con studio a Milano, docente a contratto di Diritto per l’impresa e la comunicazione digitale allo IULM.

Photo credits: Tim Bennet

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“La legge non dice nulla di specifico, ma ci sono due importanti principi generali da rispettare. 

Il primo principio è a tutela del pubblico e dei consumatori: la pubblicità e la comunicazione (anche digitali) devono essere palesi, cioè non devono presentarsi sotto le mentite spoglie di opinioni, passaparola spontaneo, o di informazione. Invitare i dipendenti a fare da Brand Ambassador è possibile a patto che i dipendenti rendano esplicito che in quell’azienda ci lavorano. 

Questo non significa che il dipendente Brand Ambassador deve usare per forza un account social (es. profilo LinkedIn) dove è indicato il suo ruolo aziendale. L’importante però è che, anche da un account privato (es. profilo Facebook), renda riconoscibile la sua appartenenza all’azienda. 

Il secondo principio è a tutela dei lavoratori. Tranne che per alcuni ruoli che implicano naturalmente questa proiezione verso l’esterno (relazioni esterne, comunicazione), un’azienda deve rispettare l’eventuale rifiuto di un dipendente di fare da Brand Ambassador. Un dipendente bravo che svolge bene il suo lavoro non può essere penalizzato nei suoi percorsi di carriera solo perché non ha accettato di essere “voce” aziendale. 

Vedrei un problema di diritto del lavoro anche in caso di premi economici riconosciuti ai dipendenti che fanno da Brand Ambassador. Il sistema di incentivazione dei dipendenti dovrebbe sempre rispettare i criteri di remunerazione previsti dal contratto collettivo di lavoro. 

Piuttosto, per alcune categorie di dipendenti, scelte per la compatibilità del loro ruolo aziendale con l’oggetto della comunicazione, si possono immaginare forme di incentivo basate invece che su premi/bonus misurabili economicamente, su riconoscimenti “morali” (tipo menzioni sugli spazi digitali dell’azienda) o di “esperienza” (ad es. inviti a eventi come testimonial dell’azienda, ecc.). 

Inoltre, penso che sia sempre preferibile un premio “di gruppo” a un team che ha seguito questo tipo di comunicazione social, piuttosto che il classico bonus individuale. In conclusione, secondo me, un’azienda dovrebbe premiare il risvolto qualitativo e non quello quantitativo di questi contributi, e dovrebbe farlo più sul piano morale che su quello materiale, più in una logica di team che in una logica “competitiva” di risultato economico”. 

La social media policy di un’azienda normalmente fornisce tutte le indicazioni su cosa un dipendente può condividere online (e su come farlo). Cosa succede però dal punto di vista legale se un Brand Ambassador condivide in maniera non intenzionale contenuti riservati o non appropriati? 

“Il dipendente è vincolato alla riservatezza, sia dal Codice Civile che dai contratti collettivi di lavoro. Se la social media policy è chiara e ben costruita, e se dalla condivisione di informazioni riservate o di contenuti non appropriati l’azienda è danneggiata, teoricamente per l’azienda esiste la possibilità di rivalsa in sede civile. Tuttavia, la considero un’ipotesi estrema, immaginabile solo di fronte a ingenuità o errori clamorosi, e realmente dannosi. Un’azienda che incentiva i dipendenti a fare da Brand Ambassador ha poche chance che un giudice le dia ragione di fronte a condivisioni non intenzionali che hanno avuto ricadute negative sulla reputazione aziendale”.